Ciclofficine d’Italia
Chi considera la bici, oltre che un mezzo di trasporto,
uno strumento di critica sociale,
non può mancare una visita a questi luoghi,
un po’ officine un po’ laboratori di idee
uno strumento di critica sociale,
non può mancare una visita a questi luoghi,
un po’ officine un po’ laboratori di idee
Sono luoghi aperti che nascono sotto il segno della condivisione della conoscenza e dell’esperienza. Qui brugole e chiavi nanometriche convivono con la cultura del ciclismo urbano, ci si sporca la mani per mettere a posto il movimento centrale mentre si coltiva il sogno dell’autarchia ciclistica e si discute degli assurdi livelli della motorizzazione italiana. Tutto questo, e molto altro ancora, sono le ciclofficine. Luoghi in cui chiunque può entrare per mettere a posto, montare, verniciare o addirittura cercare una bicicletta nuova. Magari senza spendere un euro e senza grandi competenze meccaniche. Perché lo spirito della ciclofficina, per l’appunto, è soprattutto la condivisione. Poco male se non sai da che parte cominciare per sostituire i cuscinetti della ruota che scricchiola, troverai qualcuno più esperto che te lo potrà spiegare, ma di certo non lo farà al tuo posto. Poi, magari, potrai sdebitarti acquistando un attrezzo mancante o qualche pezzo di ricambio. Oppure niente, visto che le ciclofficine, tra le tante cose che sono, non sono luoghi di scambio economico. Va da sé che un contributo è sempre gradito perché la luce, l’olio per lubrificare la catena e il sapone per lavarsi le mani non è gratis per nessuno.
Il dna antagonista delle ciclofficine è scritto nel loro certificato di nascita. Tutto comincia all’inizio degli anni 2000: stufi di smanettare nei loro garage, un gruppetto di ciclisti decide di cercare un posto in cui lavorare insieme, mettendo in comune passione, esperienze e attrezzi del mestiere. Quel posto lo trovano dentro il centro sociale Bulk: nasce così la prima ciclofficina italiana. Poco dopo, a Roma, l’esperienza viene replicata dal Macchia Rossa, nel quartiere Magliana. La capitale si rivela il terreno più fertile per le ciclofficine, ma nel giro di pochi anni, ne spuntano un po’ ovunque e oggi se ne trovano in molte città italiane. Spesso sono proprio loro il motore occulto delle critical mass, le pacifiche invasioni stradali con cui i ciclisti rivendicano il diritto di “essere traffico”.
Consorziate nella Rete delle ciclofficine popolari, si tratta di realtà eterogenee perché molte sono fuoriuscite dal circuito dei centri sociali preferendo la forma giuridica dell’associazione. Il filo rosso che lega tutte le ciclofficine, comunque, resta l’amore per la bicicletta, l’accanimento terapeutico per riportare in vita anche rottami apparentemente senza speranza, lo spirito volontaristico di tutti i meccanici. Insieme all’idea di rivisitare il concetto stesso di bicicletta, modificandone la geometria del telaio, la forma del manubrio, il meccanismo dei freni (che spesso non ci sono perché la ruota è fissa, cioè il suo movimento è solidale con quello dei pedali). Se vi è capitato di vedere in giro per la città strani modelli allungati, rialzati o sdraiati, è probabile che a produrli sia stata una ciclofficina.
La Ciclofficina Centrale dei Ciclonauti, a Roma, è il migliore esempio di come siano cambiate queste realtà negli anni. Nata all’interno di uno spazio occupato, in seguito allo sgombero ha deciso di trasferirsi in una struttura messa a disposizione dal Comune, a cui paga l’affitto. “ La nostra scelta è stata quella di cercare un dialogo con le istituzioni cittadine”, racconta Giuseppe Fiore, alias Il Losco Individuo (nel circuito delle ciclofficine è raro trovare qualcuno che si chiami per nome). “ In questi anni abbiamo collaborato con una Asl di Roma organizzando corsi di meccanica per pazienti con disagi psichici. Venivano in ciclofficina accompagnati da un medico e noi gli insegnavamo a mettere le mani sulla bicicletta. La stessa cosa abbiamo fatto con una cooperativa impegnata alla Stazione Termini con persone senza fissa dimora. Che adesso hanno un centro di noleggio bici”. E non solo: per recuperare il materiale su cui lavorare i ciclonauti hanno un accordo con l’Ama, l’azienda che gestisce i servizi ambientali della capitale, grazie al quale durante la raccolta dei rifiuti ingombranti possono portarsi via le biciclette destinate alla distruzione.
È un’associazione anche quella che c’è dietro alla ciclofficina Abc di Torino, all’interno di un ex bagno pubblico, nel quartiere di San Salvario. “ Si tratta di uno spazio condiviso”, spiega Beppe Piras, “ perché quando non ci siamo noi, c’è il corso di ballo per gli anziani o lo sportello per gli immigrati. Come altre ciclofficine, oltre a dare una mano a quelli che passano di qui con la bici ammaccata, organizziamo corsi di ciclomeccanica di base. Pubblichiamo l’iniziativa sulla nostra pagina Facebook e nel giro di poche ore i posti disponibili sono già esauriti”. In certi casi, la ciclofficina si può anche trasformare in una casa d’asta. È successo l’anno scorso quando Piras e soci hanno battuto una dozzina di biciclette per raccogliere fondi in favore dell’Emilia colpita dal terremoto. Ma chi sono i frequentatoti delle ciclofficine? Per lo più giovani e studenti (tra cui anche molti stranieri) ma anche da cicloturisti, appassionati e professionisti che si spostano per la città in bicicletta. “ La motivazione economica è senz’altro forte”, continua Piras. “ Ma non è certo l’unica. Anzi, osserviamo con piacere che la bici appassiona e interessa sempre di più”.
E il merito è anche delle ciclofficine.
di Matteo Scarabelli
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