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20/02/20

O sei Cristiano o sei Salvini

O sei cristiano o sei di Salvini


A processo a Como il prete denunciato dal leader della Lega

È iniziato a Como il processo nei confronti di don Alberto Vigorelli, sacerdote di 81 anni querelato da Matteo Salvini per diffamazione per aver detto durante una predica: “O sei cristiano, o sei di Salvini”. Il parroco della parrocchia di Santo Stefano di Mariano Comense ha affermato: “Non l’ho offeso, non capisco perché voglia le mie scuse”. L’udienza è stata aggiornata al 14 maggio.



È iniziato ieri davanti al giudice di pace di Como il processo nei confronti di don Alberto Vigorelli, sacerdote di 81 anni querelato da Matteo Salvini per diffamazione. Il leader della Lega ed ex ministro dell'Interno non avrebbe gradito una frase pronunciata dal sacerdote al termine di una predica durante una messa del 6 novembre 2016 nella parrocchia di Santo Stefano di Mariano Comense. Il sacerdote, secondo quanto riporta il quotidiano "Il Giorno", aveva letto un famoso passaggio del Vangelo secondo Matteo che recita: "Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto". Al termine avrebbe aggiunto la frase incriminata:
 "O sei cristiano o sei Salvini" 


Ad assistere alla funzione c'era qualche appartenente alla Lega che aveva riferito la frase ai vertici locali del partito: da lì l'affermazione era giunta allo stesso Salvini che aveva deciso di querelare in prima persona (e non poteva fare altrimenti, perché per il reato di diffamazione si procede solo in seguito a querela) il sacerdote.

Il sacerdote: Non ho offeso Salvini
Il sostituto procuratore di Como Massimo Astori aveva chiesto l'archiviazione per il prete, sostenendo che non vi fossero i presupposti della diffamazione, ma il leader della Lega si è opposto e il giudice di pace ha disposto l'imputazione coatta per il sacerdote. Il processo si è aperto ieri, martedì 18 febbraio, ma è stato già aggiornato al prossimo 14 maggio perché le parti non avrebbero trovato un accordo. In aula era presente don Alberto, sostenuto fuori dal tribunale da un capannello di fedeli e sostenitori. All'uscita dal palazzo di giustizia don Alberto ha spiegato di non aver offeso Salvini e di non capire perché il leader della Lega voglia le sue scuse. Una tesi ribadita dal suo avvocato Oreste Dominioni al "Giorno": "Ha predicato il Vangelo, un’azione per la quale non può scusarsi".


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Documenti dell’Arresto di Benito Mussolini


Mussolini

I documenti dell’arresto di Benito Mussolini in Loggia del Capitaniato: falsificato il permesso di soggiorno da immigrato

Il futuro dittatore fascista Benito Mussolini, nella primavera del 1903 era emigrato a Berna, in Svizzera, dove la polizia lo aveva arrestato perché  sospettato di aizzare i lavoratori italiani allo sciopero ed alla rivolta. L’anno successivo, il 1904, Mussolini viene addirittura trattenuto in carcere per 7 giorni a Ginevra, “a causa del permesso di soggiorno falsificato“.

Lo si legge nei documenti originali, con tanto di fotosegnalazione di un giovane Mussolini, che sono in esposizione nella mostra allestita dalla Polizia di Stato all’interno della Loggia del Capitaniato dall’8 al 10 maggio. In Piazza dei Signori a Vicenza è stata inaugurata mercoledì mattina dal Questore e dai vertici nazionali del Servizio Polizia Scientifica, insieme al sindaco Francesco Rucco.

Mussolini

 Mussolini

Dedicata a quei decerebrati che , ammirano un tale traditore seriale. Una chicca per voi. Ecco la foto segnaletica della polizia svizzera del giovane Mussolini allora pacifista e bolscevico,ESPATRIATO PER EVITARE IL SERVIZIO DI LEVA!!! Sì proprio così ,un "Voltagabbana Totale" , da Ateo, Socialista ,Bolscevico,Pacifista Antiinterventista , Internazionalista, Antimonarchico, a Nazionalista,Guerrafondaio,Fascista,uomo del Vaticano,Realista.. Ma come si fà ad ammirare un uomo cosi' che per di piu', come stratega, è stato il migliore aiuto agli alleati con i suoi errori, ai quali i tedeschi dovevano sempre rimediare e che "dulcis in fundo"non è caduto con le armi in pugno o si è suicidato come il suo omologo tedesco, è stato fucilato mentre CERCAVA DI SCAPPARE, per di piu' travestito da soldato tedesco, proprio quelli nelle cui mani aveva lasciato il suo paese! Non siete mica a posto!



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11/02/20

Leghista Contro la Modella scelta da Vogue


Leghista Contro la Modella scelta da Vogue


 "Italian Beauty? Non è bianca''

Il sottosegretario Variati interviene sulle frasi di Daniele Beschin, consigliere leghista ad Arzignano: "Non può esserci spazio per il razzismo nelle istituzioni della Repubblica".

Maty Fall Diba ha 18 anni, è nata in Senegal dove è vissuta fino all'età di 9 anni per poi trasferirsi in Italia, dove è cresciuta. Vive a Chiampo in provincia di Vicenza, ha chiuso l'ultima sfilata di Valentino ed è una delle protagoniste del numero di febbraio di Vogue Italia dove posa per il fotografo Paolo Roversi tenendo tra le braccia la scritta Italia. Una prestigiosa apparizione che però l'ha portata, suo malgrado, al centro di una polemica politica sul concetto di vera bellezza italiana.

La sua fotografia, associata all"italian beauty", ha acceso infatti una polemica a causa delle dichiarazioni di Daniele Beschin, consigliere leghista di Arzignano. Beschin ha commentato sui social le parole con cui il sindaco di Chiampo, Matteo Macilotti, si era detto orgoglioso dei successi come modella della propria concittadina: "Per me - ha scritto Beschin - una chiampese doc è una ragazza solare, bianca".

Sulle frasi di Beschin è intervenuto il sottosegretario al ministero dell'Interno, Achille Variati: "Non può esserci spazio per il razzismo nelle istituzioni della Repubblica italiana". E a ruota anche Stefano Fracasso, capogruppo del Pd nel consiglio regionale veneto: "Bene ha fatto il sindaco di Chiampo a esprimere l'orgoglio della sua comunità".

All'esultanza del sindaco di Chiampo per la scelta di "Vogue Italia" di mettere in copertina la diciottenne di origine senegalese - e italiana a tutti gli effetti - Maty Fall Diba, Beschin aveva replicato che la giovane modella non poteva essere definita né chiampese né italiana: "Solo un bianco può essere italiano". Variati ha aggiunto: "Quella di Beschin è una posizione semplicemente, incontrovertibilmente, disgustosamente razzista - ha detto - Che non possiamo accettare e che è incompatibile con la funzione pubblica di un consigliere comunale".

"Spero che tutti - ha osservato il sottosegretario - si rendano conto di quanto atteggiamenti come questi siano pericolosi per la nostra società, e richiamino teorie, come quelle sulla purezza della razza di tragica memoria nazista e fascista, che hanno macchiato di sangue la storia. È una vergogna per la terra vicentina, di cui sono stato presidente della Provincia". Variati ha infine concluso annunciando che "segnalerà l'episodio per ogni utile verifica. La mia solidarietà al sindaco Macilotti, e soprattutto un abbraccio affettuoso alla giovane Maty, nostra connazionale a cui auguro di non farsi abbattere e di ottenere ogni successo".

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Cosa faresti se ti imponessero di lavorare gratis per due mesi mentre i tuoi colleghi continuano a guadagnare...    https://cipiri5.blogspot.com/2020/02/lega-vota-no-parita-di-salario-tra.html


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10/02/20

Sardine: il Popolo, la Politica e l’Antipopulismo

Sardine il Popolo, la Politica e l’Antipopulismo




Sardine il Popolo, la Politica e l’Antipopulismo


Dopo aver visto “Senza tetto” di Domenico Iannaccone
 sono ancora più convinto che talune formule 
che si usano sono davvero pura retorica. 
Penso alla locuzione: “Bisogna riandare in mezzo alla gente”. 

Come se questo “andare al popolo” potesse essere una specie di gesto salvifico. Come se non 
conoscere di persona e da vicino la sofferenza di chi vive in periferia, o non ha casa, oppure è 
disoccupato, o subisce la discriminazione razziale, 
non consentisse di prendere coscienza dei fenomeni al punto di fare finalmente qualcosa. Sì, ma cosa? Possibile che solo la politica che si schiaccia sul 
sociale, che si rende sottile, quasi scompare alla vista, possa avere un effetto terapeutico verso il 
disagio? Possibile che la politica debba obbligatoriamente ‘ridursi’ al sociale per svolgere i propri 
compiti, e tra questi il riscatto di chi lavora o di chi vorrebbe lavorare ma è disoccupato? O di chi vive lontano, ai margini, fuori dai circuiti che contano? Possibile che si debba ineluttabilmente adottare lo stile populista, per il quale la prossimità al popolo e alle sue contraddizioni possa essere la sola garanzia di un cambiamento?

Dirò un’apparente eresia, ed è questa: si mette in movimento un processo effettivo (anzi effettuale) di 
cambiamento solo se si ha un’idea di società adeguata alle condizioni vigenti e perfettamente indirizzata a combattere le disuguaglianze e il disagio sociale e personale di milioni di persone. Sennò, si va al popolo solo per diventare popolo, e magari assumerne la rabbia; ma con ciò perdendo di vista il percorso complesso, articolato che traversa le istituzioni, fa i conti dovuti con gli apparati del sapere e della conoscenza e si misura con i vincoli 
che lo stato di cose ti impone, per modificarli sempre più. 

Sennò, andare in mezzo alla gente diventa una specie di gita delle élite, magari un bel passatempo, 
persino un evento pittoresco. I dati li conosciamo in abbondanza, l’informazione ci bombarda 
continuamente di notizie e di rappresentazioni della realtà; ed è sotto gli occhi di tutti che un diaframma di ingiustizia taglia in due la società. Quel che fa la differenza, appunto, è l’idea che abbiamo di tutto ciò, gli intenti veri che manifestiamo, e poi i progetti politici che governo, istituzioni, quel che resta dei partiti mettono in campo.

‘Andare al popolo’ privi di un’idea di società (anzi, identificati demagogicamente con la società stessa!), senza alcun progetto di cambiamento, di riscatto sociale, di cura dei mondi marginali e non solo di quelli che magnetizzano il reddito, sarebbe un inutile beau geste. Ecco perché soltanto un’articolazione politica, dotata di un’idea e di un’autonomia, può indicare una direzione, e non limitarsi a praticare l’identificazione (impossibile peraltro) tra la stessa ‘politica’ e il ‘popolo’. Semmai, se ciò avvenisse, il destino del sociale sarebbe davvero segnato, circoscritto, tendendo ad appiattirsi su di sé, e a farsi rabbioso (come in Francia) o peggio disilluso (come nella astensione). La politica è una leva, deve essere una leva anche istituzionale, non meramente una ‘riflessione’ sociale o economica. La politica deve rappresentare, non sciogliersi, non miscelare mondi diversi. Deve saper essere autonoma. Un circolo, una sezione (quando esistono) non sono nel quartiere per fare ‘sindacato’ o associazionismo, per immedesimarsi, per ‘andare al popolo’, ma per sperimentare, verificare e mettere alla prova e misurare coi soggetti sociali le idee, i progetti e le possibili linee di avanzamento della proposta politica, mettendo a confronto il fronte istituzionale e quello delle organizzazioni politiche con la ruvidezza sociale e con le singolarità che non si sciolgono, costruendo dibattito e partecipazione, meglio se organizzata.

Il vero movimento è opposto, in realtà: è il popolo che deva andare alle istituzioni, ai partiti, alla politica, nel senso di esigere idee, sollecitare progetti, indurre mosse istituzionali, dando corpo effettuale alla rappresentanza. Le sardine sono un’interpretazione efficace e attuale di questa esigenza. Una sorta di antipopulismo, direi, una medicina da somministrare a una prassi malata, la quale vede nel ‘popolo’ la salvezza, dimenticando che quest’ultima, se ci fosse davvero, sarebbe opera della politica, sarebbe suo compito, sarebbe una sua sfida. Parlo di una politica, certo, capace di guardare alla società con il piglio di chi vuole cambiare le cose, 
e trasformare la vita pubblica e quella delle persone. 

Una politica capace di idee effettuali, di una cognizione esatta dei vincoli per spostarli sempre più in avanti, di una visione delle istituzioni che le rende operanti e non scatole vuote, nonché stimolo alla partecipazione dei lavoratori e dei cittadini, unico vero antidoto alla corse arrischiate verso la rabbia sociale, senza nemmeno il paracadute di idee chiare e distinte e il rispetto, assieme, dei limiti della propria azione e delle differenze vigenti. 
Senza una cognizione delle quali tutto si confonde,
 tutto si mischia, come una pece, come un nulla.



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Il governo Monti fu chiamato perché c'era la Crisi Creata da Berlusconi Salvini e Meloni

Il governo Monti  fu chiamato perché c'era la Crisi Creata da Berlusconi Salvini e Meloni


Carlo Cottarelli (economista): Monti è stato chiamato perché c'era la crisi. Aumentò le tasse e tagliò le spese, il che nell'immediato non può far bene all'economia ma sarebbe andata ancora peggio se non avesse fatto quello".

Un popolo di smemorati..
Chissà perché il racconto delle destre si ferma all'odiato e sempre citato Monti, ma omettono di dire che fu chiamato a risolvere una crisi devastante innescata proprio dal governo di destra: Berlusconi Lega. 
Berlusconi lV 2008 2011
E dopo i Danni guarda caso la lega scappò all'opposizione, lasciando che i guai li affrontassero altri. 
Criticando aspramente ciò che si è dovuto fare per rimettere in carreggiata il paese. Questa la storia il resto sono bufale. Dovrebbe bastare per capire il personaggio salvini, che a distanza di 9 anni ripercorre lo stesso copione. Sarebbe ora di svegliarsi, sarebbe ora che chi ha provocato disastri paghi politicamente, invece viene premiato con il 30% dai sondaggi e viene accolto come salvatore.
Solo un popolo di folli può comportarsi così.

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Enrico Berlinguer, un Leader Senza Eredi

Enrico Berlinguer, un leader senza eredi

Per dieci anni il segretario del Pci è un capo rimosso: troppo scomodo, troppo difficile confrontarsi con la sua politica. La riscoperta arriva nel 1994 con il fallimento della strategia di Occhetto

DI MARCO DA MILANO

Molti sguardi si cercavano, fra le file, e in molti Ernesto colse la sua stessa percezione, che nulla 
sarebbe stato più come prima, che quel modello di partito che il vecchio Segretario aveva sviluppato a modo suo, difendendolo fino alla morte, era perito con lui e forse prima di lui.... Ernesto, il funzionario del Pci protagonista del romanzo di Enrico Menduni Caro Pci, racconta così il suo smarrimento, personale e collettivo, dopo la morte di Enrico Berlinguer. Il libro esce nel 1986, dal tragico comizio di Padova sono passati appena due anni,
 l'eredità del segretario amato è un peso che il successore 

Alessandro Natta prova a reggere con dignità, ma nessuno in quel momento la rivendica 
espressamente perché «un'eredità, per sua natura, è qualcosa di diverso da una presenza viva». E 
invece quel Pci, nel racconto di Menduni, assomigliava alle rovine della Roma antica, «necropoli, terre di morti che parlavano per segni al posto di città ormai cancellate ... Anche il Partito era stato costruito su aspirazioni forti, impregnate di senso, capaci di parlare al cuore degli uomini e delle donne. Poi qualcosa si era spezzato. Le strade della vita e dei mutamenti si erano dirette altrove».

Sarà così anche nel momento di maggiore travaglio, all'indomani della caduta del muro di Berlino e 
della svolta della Bolognina, il cambio del nome e del simbolo del partito comunista. Si fissano le posizioni in quel passaggio storico, il nucleo del sì, il fronte del no, e poi i riformisti, quelli che 
«compagni, la svolta è una necessità», senza alternative, 
e quelli che invece la vivono come una scelta liberatoria.


A recuperarli oggi, il discorso di Achille Occhetto alla direzione del 14 novembre 1989 e la relazione di fronte al Comitato centrale del 20 novembre in cui viene per la prima volta lanciata la "Cosa" («Prima viene la cosa e poi, il nome. E la cosa è la costruzione in Italia di una nuova forza politica»), gli interventi a favore e contro, il dibattito tra gli intellettuali sulle pagine dell' "Unità" o del "Manifesto", a rileggerli a distanza di un quarto di secolo ci si accorge 
di un'assenza vistosa. Manca l'Eredità. Manca Enrico Berlinguer.

Solo il giovane Gianni Cuperlo, segretario della Fgci, in quello storico Comitato centrale cita il 
segretario scomparso a Padova per ricordare la sua lezione sul «senso rivoluzionario di una proposta 
come l'austerità», Tutti gli altri, i compagni di lotta di Enrico come Alessandro Natta o Aldo Tortorella, che guidano il fronte del no, e i giovani della segreteria, come Massimo D' Alema e Walter Veltroni, sostenitori con accenti diversi della Svolta, evitano ogni riferimento a Berlinguer, resistono alla tentazione di annetterlo a un fronte o all'altro. Forse perché, onestamente, nessuno è in grado di dire cosa avrebbe fatto il leader comunista nel 1989, 
se avrebbe oltrepassato i limiti o se avrebbe provato a resistere.

Andrà allo stesso modo nel 1992, quando il Pds è chiamato a Milano ad affrontare l'operazione Mani 
Pulite. Nessun dirigente di rilievo osa nascondersi dietro l'ombrello protettivo della figura di Berlinguer, come accadrà in seguito. Anzi, quando Occhetto torna alla Bolognina per la "seconda svolta", attacca «la nobile illusione storica propria del Pci: che il codice morale del partito fosse, per così dire, di un rango etico superiore a quella del singolo cittadino», 
infrange il mito berlingueriano della diversità.

Fino al 1994 Berlinguer è un leader rimosso Troppo scomodo. Troppo difficile confrontarsi con la sua politica. Anche se, nel frattempo, il mito tra i militanti e l'elettorato è intatto, nei primi anni Novanta nei teatri l'applauso più forte per Giorgio Gaber scatta quando arriva il verso «qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona». Un mito che va oltre la politica, che precede gli errori e le 
sconfitte, che sta lì ad indicare la distanza tra le grandi speranze collettive del passato e il mediocre 
adattamento del tempo presente. Per riscoprirlo bisogna aspettare la nuova crisi, il fallimento della 
strategia occhettiana, il risveglio dal sogno di diventare il partito architrave della seconda Repubblica.

L'alternativa al sistema politico bloccato, fondato sulla centralità della Dc e dei suoi alleati di governo, a partire dal Psi di Bettino Craxi, arriva ma ha tutt'altro colore politico. Arriva da destra, la nuova destra cresciuta e maturata negli anni Ottanta, il forza- leghismo di Silvio Berlusconi e di Umberto Bossi. È il 1994, dai funerali di piazza San Giovanni sono passati dieci anni, i leader del Pds che fino a quel momento hanno evitato di inserirlo tra i padri fondatori del nuovo partito si contendono l'eredità di Berlinguer. Interpretandola, naturalmente, ciascuno a suo modo.


Occhetto ritrova il predecessore nel decimo anniversario della scomparsa, con un lungo editoriale 
sull'"Unità" intitolato "L'uomo del rinnovamento": «Berlinguer non si affidava solo alla grande politica, intesa come manovra, ma al sorgere, nel cuore della società civile, di "nuove potenze", cioè di forze organizzate dal basso, capaci di introdurre nel corpo vivo della società alcuni fondamentali "elementi di socialismo". Per troppo tempo ci siamo dimenticati di questa sua innovazione», scrive il segretario del Pds l'11 giugno. «Se ripenso allungo cammino politico compiuto insieme a Berlinguer, e poi a quello che abbiamo fatto dopo di lui, io trovo gli elementi di una unità di intenti, di una ispirazione comune. Ma guardiamoci dal dipingere la storia politica di Berlinguer come una marcia trionfale, circondato dal rispetto e della venerazione. Egli in realtà fu ferocemente criticato, perfino dileggiato ». Il segretario del Pci diventa l'innovatore, il precursore della svolta, incompreso dagli avversari ma soprattutto dei compagni di partito: una sovrapposizione completa tra Berlinguer e Occhetto, isolato all'interno del gruppo dirigente. D'Alema ne ha già chiesto in privato le dimissioni («Achille, sei tecnicamente obsoleto »), passeranno quarantotto ore e il segretario del Pds diventerà il primo numero uno di Botteghe Oscure che si dimette in seguito a una sconfitta elettorale. Un nuovo trauma per il popolo post-comunista, dieci anni dopo Padova. La diversità non c'è più, anche nel Pds la lotta per la leadership si fa brutale guerra per il potere, con la conta dei fedelissimi e lo screditamento degli avversari: il dileggio. 

Nei libri e nelle interviste degli anni successivi Occhetto sarà ancora più esplicito. E rivelerà che già nel 1974, durante la campagna per il referendum sul divorzio, il leader gli aveva confidato l'intenzione di cambiare il nome del Pci, in una stanza di albergo ad Agrigento. «Enrico passeggiava dietro di me in maniche di camicia e pantofole. All'improvviso mi chiese a bruciapelo: "Cosa ne pensi se cambiassimo nome al Pci?". Rimasi di sasso, senza respiro. Fantasticammo un po', alla fine mi chiese: "Che nome gli daresti?". Ci pensai un po', poi timidamente azzardai: "Partito comunista democratico". Lui sorrise con aria di sufficienza e mi rispose: "Da un lato è troppo poco, dall'altro si finirebbe per far credere che attualmente non siamo democratici».

C'è, in questo racconto, l'ossimoro tra il comunismo e la democrazia, il dilemma impossibile che 
Berlinguer prova ad attraversare in vita e che i discendenti devono sciogliere trovandosi di fronte alla 
sfida nuova di una politica disincantata, eppure bisognosa di radici simboliche potenti, per non perdere la strada. Lo capiscono D' Alema e Veltroni che nel 1994 scrivono un libro su Berlinguer, proprio mentre stanno scontrandosi per la segreteria del partito. I duellanti della Quercia sono cresciuti negli anni Settanta, tra la Fgci e Botteghe Oscure, possono rivendicare a buon titolo un pezzetto del patrimonio, ma rappresentano fin da allora due concezioni diverse della politica, delle alleanze, due modi diversi di intendere il partito, la nascente coalizione dell'Ulivo, il progetto del futuribile Partito democratico. Il Berlinguer di D'Alema non è il Berlinguer di Veltroni. Per D' Alema il segretario del Pci è l'uomo che ha intuito «la necessità dell'incontro tra la sinistra democratica e il mondo cattolico», chiamato a benedire il patto con il centro che è l'architrave di tutta la politica dalemiana degli anni a venire, da Lamberto Dini a 
Pier Ferdinando Casini passando per Francesco Cossiga: un mini-compro messo storico.

Per Veltroni Berlinguer è il politico dei «pensieri lunghi» sulla rivoluzione femminile e tecnologica, l'uomo della «sfida interrotta», «il primo fenomeno della politica-spettacolo» che bucava lo schermo con il suo aspetto severo e il sorriso timido, un «innovatore coraggioso e solitario »: «Quando disse che la spinta propulsiva della rivoluzione d'ottobre si era esaurita andò in tv, non era andato a Botteghe Oscure, parlava direttamente alle persone». Il leader per cui potevi iscriverti e votare per il Pci senza essere comunista, come ripetutamente Veltroni dirà di sì. Con Aldo Moro, il padre ispiratore di un possibile Partito democratico. Un Berlinguer diviso in due. L'ipertattico e l'icona. Il custode dell'identità e della vecchia forma-partito e l'anticipatore del nuovo, colui che il vecchio partito aveva già superato. La bussola che indica la strada, il modello da proporre ai giovani, ma anche l'ostacolo, l'ingombro, da rimpiangere o da consegnare al passato. Dimenticare Berlinguer, suggerisce in un pamphlet pubblicato da Donzelli, Miriam Mafai che l'ha conosciuto bene, ed è il 1996, l'anno in cui i ragazzi di Botteghe Oscure raggiungono finalmente l'obiettivo di arrivare al governo: «Dimenticare Berlinguer significa liberarsi, criticamente, di un bagaglio di idee, di concezioni del mondo, di valori persino che rischiano di 
impedire alla sinistra, ed al Pds che ne è la parte più rilevante, di guardare alla realtà con occhio scevro da pregiudizi e di immaginare le possibili soluzioni».

Il mito di Enrico, però, è più vivo che mai. Si alimenta delle incoerenze, delle giravolte ideologiche, dei tradimenti dei suoi eredi. In un pantheon vuoto, in cui la confusione delle radici e dei riferimenti simbolici appare una babele più che uno sforzo di eclettismo culturale, tra neo-togliattiani e tardi epigoni dei fratelli Rosselli di Giustizia e libertà, la figura di Berlinguer continua a influenzare in profondità i nuovi leader, chissà quanto inconsci emulatori di un politico inimitabile, perfino negli aspetti minori. n gesto bello, allegro, spontaneo di Roberto Benigni che prende in braccio un Berlinguer più che mai intimidito e però sorridente, viene ripetuto più volte dai successori: una gara a farsi prendere in braccio, o almeno a farsi baciare dall'attore toscano, che finisce per ottenere l'effetto opposto, stucchevole. Man mano che aumentano anche nel campo post-comunista gli scandali, l'allontanamento dagli «ideali di gioventù», l'incapacità dei dirigenti di «parlare al cuore e alla mente delle persone» denunciata nel 2002 da Nanni Moretti in piazza Navona, ecco che rispunta irrefrenabile, la nostalgia di Berlinguer, di quando c'era Enrico. Nel 2004, altro decennale, la sinistra nel frattempo ha consumato senza particolari entusiasmi la 
prima prova di governo, sta attraversando il deserto di una legislatura berlusconiana a corto di modelli politici e culturali. Tocca a D' Alema proporre una nuova lettura di Berlinguer, provando ad arginare quel che sente avanzare nel campo democratico e progressista, in casa propria: il vento dell'anti-politica che soffia forte e che si rafforza nel ricordo dell'antico leader che denunciato la questione morale come cuore della crisi italiana.

«Di fronte al discredito della politica, l'antipolitica è diventata un fenomeno culturale fortissimo nell'ultimo decennio. Dominante», dice il presidente dei Ds a Piero Sansonetti che lo intervista per "L'Unità". «La versione di destra è al governo del Paese, con Berlusconi. La versione di sinistra è un male oscuro che corrode la sinistra italiana. Berlinguer è una potentissima testimonianza contraria». «Corriamo il rischio di trasformare Berlinguer in una figura profetica, disinteressato alla politica come compromesso, manovra, aggiramento dell'avversario. Invece morì mentre stava trattando con la Dc per far cadere Craxi, l'antipolitica direbbe sottobanco, io dico riservatamente ... Abbiamo bisogno di una guida politica per il Paese, il nuovismo ha prodotto un disastro», ripete D' Alema in una commemorazione organizzata in Campidoglio, nell'ansia di chiamare l'autorità morale del leader scomparso a esorcizzare il fantasma dell'inciucio che perseguita il suo successore. Un tema che tornerà a far discutere, e a dividere, nel 2013, con il governo delle larghe intese del Pd con Berlusconi. E al leader scomparso il primo (e unico) Presidente del Consiglio che è stato iscritto al 
Pci dedica un memoir del viaggio in cui il giovane D' Alema accompagna il segretario in Unione sovietica per i funerali del sovietico Juri Andropov, qualche 
mese prima della morte, nel1984 che è l'ultima volta di Berlinguer a Mosca e di tante altre cose. Un 
ricordo commosso e ironico (il racconto delle tre leggi generali del socialismo reale: «La prima è questa: i dirigenti dicono sempre le bugie, anche quando non è necessario. La seconda è questa: l'agricoltura non funziona. La terza legge, facci caso, è che le caramelle hanno tutte la carta attaccata ... ») di un leader e di un mondo arrivato alla fine. Lo ammette Veltroni, intervenendo nello stesso convegno del Campidoglio nel2004: «Il Pci finisce con la morte di Berlinguer, questa è la verità. Ci fu poi il gesto di coraggio del1989, il Pds non era solo un nome rimasto libero sul mercato, corrispondeva a quella strana creatura che raccoglieva fasce di voto ideologicamente lontane dal Pci. Se la sinistra è arrivata al governo lo si deve al fatto che Berlinguer ha costruito quel partito lì, non l'amministrazione di un declino, ma l'apertura di un cammino».

La lettura più cruda, la meno auto-consolatoria, arriva da uno dei giovani dirigenti che fu più vicino a Berlinguer, il segretario dei Ds Piero Fassino. È lui, nel suo libro Per passione, a evocare per il leader 
più amato la categoria della sconfitta, a recidere, in modo brutalmente sincero, la radice: «Mi è capitato spesso di pensare a Berlinguer come a un campione di scacchi che sta giocando la partita più importante della sua vita: la partita dura ormai da molte ore, sta giungendo alle battute finali e 
guardando la scacchiera il campione si accorge che, con la prossima mossa, l'avversario gli darà 
scacco matto. Ha un solo modo per evitarlo: morire un minuto prima che l'altro muova. In fondo, la 
tragica fine risparmia a Berlinguer l'impatto con la crisi della sua strategia politica».

La partita di Berlinguer non era solo con Craxi. Quella dei suoi eredi si gioca con Berlusconi e con una modernità che i post-comunisti faticano a decifrare, di volta in volta troppo apocalittici o fin troppo integrati, o arroccati sulla conservazione delle antiche tavole della legge o tentati dall'accettazione totale del terreno dell'avversario, divisi tra il rigetto della diversità e la seduzione del presente, con le sue meschinità, il suo conformismo, il «desiderio di essere come tutti » che ti trascina a essere uguale, troppo uguale agli altri: «negli anni in cui c'era Berlinguer, sono stato più infelice che felice. In questi venti anni di Berlusconi, sono stato più felice che infelice»,
 conclude lo scrittore Francesco Piccolo. 
«Berlinguer finisce il comizio di Padova perché per lui la politica era una missione», commenta Veltroni alla fine del film che ne celebra il trentennale della morte, mentre fuori tutto è cambiato e va al potere una generazione di Matteo Renzi interamente cresciuta senza Berlinguer, estranea allungo dopoguerra italiano e alle sue culture politiche. Il comizio di Berlinguer, il leader senza eredi, è terminato, la partita dei suoi discendenti continua. Oppure no, è finita anche questa.  

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E’ ben noto che il leader socialista fece di tutto, nel 1978, per impedire l’elezione dello storico esponente del suo partito, famoso per le sue crociate 
anti-corruzione e per le sue posizioni, soprattutto da Presidente della Camera, contro i partiti di 
governo, a favore dell’unità con il PCI di Berlinguer...



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Pertini disse a Craxi e Martelli: Suicidatevi

Pertini disse a Craxi e Martelli: Suicidatevi


Sandro Pertini e Bettino Craxi non si sono mai amati. E’ ben noto che il leader socialista fece di tutto, nel 1978, per impedire l’elezione dello storico esponente del suo partito, famoso per le sue crociate 
anti-corruzione e per le sue posizioni, soprattutto da Presidente della Camera, contro i partiti di 
governo, a favore dell’Unità con il PCI di Berlinguer.

Per bruciarlo, Craxi fece pubblicamente il nome di Pertini come candidato unico delle sinistre. Quando gli domandarono se sarebbe stato contento della sua elezione, il leader socialista rispose: “Contento e anche commosso.” A stretto giro di posta arrivò la replica di Pertini: “Speriamo che la commozione non sia così grande da mettere in difficoltà il partito.“

Come andò a finire è noto: Sandro Pertini fu eletto l’8 luglio 1978 con 832 voti favorevoli su 995 
(maggioranza a oggi ineguagliata nella storia della Repubblica). E divenne il Presidente della 
Repubblica più amato di tutti i tempi.

Ma c’è un episodio poco noto, che merita di essere riportato: all’indomani delle elezioni europee del 17 giugno 1984, quelle in cui il PCI divenne il primo partito italiano con il 33,3% dei consensi, vi fu un duro scontro tra l’allora Capo dello Stato e Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio. Il PSI, infatti, uscì sconfitto dalla tornata elettorale: la linea di Berlinguer aveva pagato, ma lui era morto; quella di Craxi aveva perso, ma lui era vivo e avrebbe continuato a fare danni.

Di fronte al tracollo socialista, Craxi e Martelli attaccarono Pertini, secondo loro reo di aver fatto 
aumentare i voti del PCI trasportando il corpo di Berlinguer da Padova a Roma, sull’aereo 
presidenziale. La replica, durissima, arrivò fulminante:

Voi due fate una cosa. Tornate a Verona, suicidatevi sulla tomba di Giulietta e io vi porto in aereo a 
Roma. Vediamo se il Psi prende voti.

La faccenda si chiuse lì, con Craxi e Martelli che, purtroppo, a Verona a suicidarsi non ci andarono 
(quanti guai l’Italia si sarebbe evitata). Quello che rimane di questo episodio è questo: che Sandro 
Pertini era veramente una grande persona.


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08/02/20

Meno Federalismo è Meglio

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TRA STATO E REGIONI
di Guglielmo Forges Davanzati

Il progetto di regionalismo differenziato è un segnale della rottura di quello che si potrebbe definire il “patto implicito” che ha tenuto insieme Nord e Sud del Paese, ovvero un patto basato su una divisione del lavoro che ha storicamente visto le imprese del Nord produrre e vendere a beneficio dei 
consumatori residenti nelle regioni meridionali. Questo patto, al netto degli aspetti formali e della 
Costituzione vigente, ha consentito all’intero Paese di mantenere la sua unità sostanziale.

Negli anni più recenti, e a seguito dello scoppio della prima crisi (2006-2007), le nostre principali 
imprese – quelle di più grandi dimensioni e più innovative – hanno risposto alla caduta della domanda a seguito della crisi provando ad agganciarsi, attraverso catene di subfornitura al capitale tedesco e dei Paesi satelliti della Germania. Nell’attuale schema neo-mercantilista, dove ciò che conta è esportare più di quanto esportino i concorrenti (e importare meno), il Sud conta sempre meno come mercato di sbocco. Il cambiamento al quale ci si riferisce attiene alla crescita delle interconnessioni su scala globale: le cosiddette catene globali del valore. Fuori dai tecnicismi, si fa riferimento al fatto che ogni prodotto finito contiene parti componenti realizzate
 in altri Paesi o altre regioni dello stesso Stato.

Il mutato rapporto fra regioni del Nord e regioni del Sud 
si inquadra nell’ambito di uno scenario nel quale:

1. Le imprese del Nord producono sempre meno beni finali e sempre più produzioni intermedie, non 
vendibili nel Mezzogiorno per la sostanziale inesistenza in loco di un tessuto industriale;

2. I residenti nel Mezzogiorno – per la caduta dei redditi, l’aumento delle emigrazioni, l’invecchiamento della popolazione – consumano sempre meno.

La Svimez calcola, a riguardo, che il calo cumulato
dei consumi dei meridionali dal 2008 al 2017 è stato nell’ordine dell’11 per cento.

Le principali motivazioni che sono al fondo del progetto “secessionista” sono sostanzialmente due. Il 
fatto che si ritiene che le regioni del Nord spendano risorse pubbliche in modo più efficiente, mentre le regioni del Sud lo farebbero tardi e male. Questa motivazione – tutta da dimostrare sul piano empirico – è a fondamento della richiesta di circa un miliardo di euro di maggiori imposte trattenute in loco da parte delle regioni che domandano maggiore autonomia. La seconda è che l’arricchimento delle aree già più ricche del Paese favorirebbe anche le aree più povere per effetto di un meccanismo di locomotiva: se la crescita delle aree più ricche (ri)parte, la ricchezza lì prodotta “sgocciola” nelle aree più povere. Come dire: se la locomotiva parte, trascina con sé anche i vagoni.



È tuttavia ben difficile ritenere che la realizzazione di questo progetto possa arrecare benefici per la 
crescita economica dell’intero Paese. E ciò a ragione della seguente circostanza. Il legame che le 
imprese del Nord hanno istituito con le imprese tedesche tramite rapporti di subfornitura rischia di 
sfaldarsi a seguito della recessione tedesca e dunque a seguito della riduzione del calo degli ordinativi che giungono alle imprese dell’arco alpino. Il rischio è dunque che la recessione tedesca si traduca in 
calo dei margini di profitto delle imprese localizzate al Nord, a seguire in compressione degli 
investimenti, del tasso di crescita delle aree più ricche del Paese e, infine e per conseguenza, nella 
riduzione della quantità di beni venduti al Sud. In definitiva, secondo lo schema interpretativo qui 
sinteticamente proposto, allo stato dei fatti e in assenza di una ragionevole prospettiva di ripresa 
dell’economia tedesca, la realizzazione del progetto di regionalismo differenziato produrrebbe danni non solo per il Mezzogiorno, ma per l’intera economia italiana. Nella migliore delle ipotesi, il regionalismo differenziato arrecherebbe solo temporanei vantaggi ai residenti nelle regioni del Nord.

Si osservi che la convinzione che l’economia italiana debba tendere a crescere a una doppia velocità 
non è affatto nuova né risale a tempi recenti. Se la Storia può insegnarci qualcosa, vale la pena 
ricordare ciò che accadde agli inizi del Novecento, periodo nel quale Giolitti ebbe ben chiaro che 
l’industria del Nord andava sussidiata e aiutata e che il Mezzogiorno doveva essere lasciato alla sua 
vocazione agricola (tema che ricorre nel dibattito attuale) per preservare i poteri dei latifondisti e 
acquisire lì consensi elettorali. Se si prende atto del fatto che il progetto federalista, già a partire 
dall’istituzione delle regioni e ancor più dalla riforma del titolo V della Costituzione, non ha prodotto altri esiti se non un aumento della spesa pubblica improduttiva, occorrerebbe trarne le dovute conseguenze e forse tornare a un assetto istituzionale nel quale le decisioni fondamentali della vita politica e sociale dei cittadini italiani (si pensi alla gestione della sanità) sono prese a Roma.
Professore associato di Economia Politica Università del Salento

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Dal 1945 ad oggi gli USA sono stati Responsabili di 20-30 Milioni di Morti


Dal 1945 ad oggi gli Usa sono stati responsabili di 20-30 milioni di morti



Nel riassunto del suo ultimo documento strategico – 2018 National Defense Strategy of the United 
States of America (il cui testo integrale è segretato) – il Pentagono sostiene che «dopo la Seconda 
guerra mondiale gli Stati uniti e i loro alleati hanno instaurato un ordine internazionale libero e aperto per salvaguardare la libertà e i popoli dalla aggressione e coercizione», ma che «tale ordine viene ora 
minato dall’interno da Russia e Cina,
 le quali violano i principi e le regole dei rapporti internazionali».

Completo ribaltamento della realtà storica. Il prof. Michel Chossudovsky, direttore del Centre for 
Research on Globalization, ricorda che questi due paesi, classificati oggi come nemici, sono quelli che, quando erano alleati degli Stati uniti durante la Seconda guerra mondiale, pagarono la vittoria sull’Asse nazi-fascista Berlino-Roma-Tokyo con il più alto prezzo in vite umane: circa 26 milioni l’Unione Sovietica e 20 milioni la Cina, in confronto a poco più di 400 mila degli Stati uniti.

Con questa premessa Chossudovsky introduce su Global Research un documentato studio di James A. Lucas sul numero di persone uccise dalla ininterrotta serie di guerre, colpi di stato e altre operazioni sovversive effettuata dagli Stati uniti dalla fine della guerra nel 1945 ad oggi: esso viene stimato in 20-30 milioni. Circa il doppio dei caduti della Prima guerra mondiale, di cui si è appena celebrato a Parigi il centenario della fine con un «Forum della pace».

Oltre ai morti ci sono i feriti, che spesso restano menomati: alcuni esperti calcolano che, per ogni 
persona morta in guerra, altre 10 restino ferite. Ciò significa che i feriti provocati dalle guerre Usa 
ammontano a centinaia di milioni.

Dal 1945 ad oggi gli Usa sono stati responsabili di 20-30 milioni di morti


A quello stimato nello studio si aggiunge un numero Non quantificato di morti, probabilmente centinaia di milioni, provocati dal 1945 ad oggi dagli effetti indiretti delle guerre: carestie, epidemie, migrazioni forzate, schiavismo e sfruttamento, danni ambientali, sottrazione di risorse ai bisogni vitali per coprire le spese militari.

Lo studio documenta le guerre e i colpi di stato effettuati dagli Stati uniti in oltre 30 paesi asiatici, 
africani, europei e latino-americani. 
Esso rivela che le forze militari Usa sono direttamente responsabili 

di 10-15 milioni di morti, provocati dalle maggiori guerre: quelle di Corea e del Vietnam e le due contro l’Iraq. Altri 10-14 milioni di morti sono stati provocati dalle guerre per procura condotte da forze alleate armate, addestrate e comandate dagli Usa,
 in Afghanistan, Angola, Congo, Sudan, Guatemala e altri paesi.

La guerra del Vietnam, estesasi a Cambogia e Laos, provocò un numero di morti stimato in 7,8 milioni (più un enorme numero di feriti 
e danni genetici generazionali dovuti alla diossina sparsa dagli aerei Usa).

La guerra per procura negli anni Ottanta in Afghanistan fu organizzata dalla Cia che addestrò e armò, 
con la collaborazione di Osama bin Laden e del Pakistan, oltre 100 mila mujaidin per combattere le 
truppe sovietiche cadute nella «trappola afghana» (come dopo la definì Zbigniew Brzezinski, 
precisando che l’addestramento dei mujaidin era iniziato nel luglio 1979, cinque mesi prima 
dell’invasione sovietica dell’Afghanistan).

Il colpo di stato più sanguinoso fu organizzato nel 1965 in Indonesia dalla Cia: essa fornì agli squadroni della morte indonesiani la lista dei primi 5 mila comunisti e altri da uccidere. Il numero dei trucidati viene stimato tra mezzo milione e 3 milioni.

Questo è «l’ordine internazionale libero e aperto» che gli Stati uniti, indipendentemente da chi siede alla Casa Bianca, perseguono per «salvaguardare i popoli dalla aggressione e coercizione».

di Manlio Dinucci

Fonte: Il Manifesto

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06/02/20

Salvini Sparirà dice Toscani con le Sardine


Salvini Sparirà dice Toscani con le Sardine


"Con le Sardine abbiamo parlato in inglese della Lega, Salvini tra un po' sparirà". Oliviero Toscani, a Un giorno da Pecora, si esprime sulla celeberrima foto che lo ritrae in compagnia di Luciano Benetton e Mattia Santori, leader delle Sardine.


"Io ho fondato e dirigo un posto che si chiama Fabrica, un centro culturale dove vengono giovani scelti in tutto il mondo. Vengono per imparare a usare le tecnologie e la comunicazione moderna. Una lezione con le Sardine è la pèù bella che si possa fare, 
sono un esempio di comunicazione", dice Toscani. 

"Sono venuti per una lezione, abbiamo messo un grande tavolo, abbiamo registrato tutto e abbiamo 
chiacchierato dalle 9.15 alle 13.45. Abbiamo parlato in inglese della Lega, Salvini tra un po' sparirà. Le Sardine hanno spiegato come hanno messo in moto tutto", dice ancora.

"Ci siamo alzati quando dovevano partire, a quel punto è arrivato Luciano Benetton per un saluto. 

Voleva conoscere le Sardine, è un ammiratore di questi ragazzi come tutti. Una studentessa ha scattato una foto per ricordo, per mandarla alla zia in Ucraina... è una battuta... Tutti l'hanno ricevuta questa foto... La ragazza l'ha inviata a tutti noi e una è andata online", afferma ancora. Con le Sardine 
"abbiamo discusso se fosse il caso di invitare la stampa
 e si è deciso di non invitare nessuno", aggiunge.

"Le Sardine sono ragazzi giovani, più sensibili. Non appartengono alla generazione di mezzo di Salvini, sono l'opposto di movimenti violenti. Renzi e Salvini appartengono alla generazione di 45-50enni che valgono poco, non sono né carne né pesce. Ho conosciuto Renzi quando era ragazzo, poi è diventato sindaco e ha cominciato ad avere problemi... Mi piacerebbe prenderlo da parte e parlarci un po'... Cosa gli direi? Non lo dico a voi...", afferma ancora.
 "Invitare Salvini a Fabrica? Lui avrebbe bisogno di lezioni".


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