Doping e Ciclismo
Il quattro volte campione del Tour de France professa la sua innocenza dopo la positività alla Vuelta: "Corro con l'asma e ne tratto i sintomi ormai da dieci anni. Conosco i limiti e non li ho mai superati". Furioso Tony Martin: "Un altro sarebbe già sospeso"
l giorno dopo la notizia-shock della sua positività all'ultima Vuelta di Spagna da lui vinta, Chris Froome si dfiende e professa la sua innocenza "Conosco le regole e non ho fatto nulla di sbagliato". Dal ritiro del team S. a Maiorca, dove si sta preparando in vista della prossima stagione, il corridore britannico di origine keniane nega ogni responsabilità in un'intervista alla BBC. "Capisco che questa notizia è uno shock per tante persone, ma non ho infranto alcuna regola. Non credo che la mia immagine sia compromessa. Posso capire le reazioni di molte persone, vista la storia di questo sport, ma questo non è un test positivo".
AUMENTO DOSE INALATORE - "Il ciclismo ha alle spalle un passato molto oscuro e nell'arco della mia carriera ho provato a fare di tutto per mostrare che le cose sono cambiate", assicura il 32enne quattro volte vincitore del Tour de France che poi torna sul suo caso. Froome, infatti, spiega di avere incrementato l'uso dell'inalatore durante la Vuelta su consiglio del medico del suo team, dopo che i sintomi dell'asma erano peggiorati. Ma precisa: "Sono un ciclista professionista, corro con l'asma e ne tratto i sintomi ormai da dieci anni. "So quali sono le regole, conosco i limiti e non li ho mai superati. Ho una procedura molto chiara quando uso il mio inalatore, ho fornito tutte queste informazioni all'Uci per aiutarli ad
arrivare fino in fondo a questa vicenda".
IL SILENZIO ALLA VUELTA - Il corridore del team Sky sottolinea poi di non avere rivelato le sue difficoltà legate all'asma durante l'ultima Vuelta per "nascondere ogni tipo di debolezza" ai suoi rivali. "Stavo gareggiando contro avversari che erano alla ricerca di un qualsiasi punto debole - osserva Froome -. In un grande giro non potrei mai dire 'sì, sono sofferente per qualcosà perché il giorno dopo i miei rivali salirebbero in sella ancora più carichi".
TONY MARTIN - Chi non l'ha presa davvero bene è Tony Martin, 4 volte campione del mondo a cronometro e argento olimpico nella specialità a Londra 2012. Il 32enne corridore tedesco accusa l'Uci di usare due pesi e due misure in merito al caso di Chris Froome, positivo al salbutamolo in occasione dell'ultima Vuelta. "Sono furioso. Altri corridori sono subito sospesi, a lui e al suo team è stato dato il tempo di spiegare tutto - tuona Martin -. Non ricordo un caso simile nel recente passato. È uno scandalo e a Fromme non andava almeno consentito di partecipare agli ultimi Mondiali". Martin si chiede se Froome e il team Sky godano di "uno status speciale" e ritiene il comportamento dell'Uci a riguardo "un brutto colpo alla già difficile lotta anti-doping che sto guidando assieme a Kittel. Abbiamo bisogno di un approccio trasparente da parte dell'Uci, ma in questo caso è un approccio non professionale e scorretto".
Doping e ciclismo, il procuratore:
«Qui ci sono genitori e allenatori che scherzano con la vita dei ragazzi»
Il capo della procura di Lucca Suchan:
«Bisogna che qualcuno finalmente si decida a parlare,
a collaborare per evitare altro dolore e altri lutti»
«Qui non si parla soltanto di doping. Qui si parla di un’associazione a delinquere con valenza criminale dietro cui si celava un utilizzo di quantità inimmaginabili di sostanze dopanti, pericolose e potenzialmente letali. Qui c’è gente, ci sono genitori e allenatori che scherzano con la vita e la salute di ragazzi giovanissimi». Si accalora e non usa mezzi termini Pietro Suchan, procuratore della repubblica di Lucca, nel descrivere l’inchiesta scaturita dalla morte, nel maggio del 2017, del ciclista Linas Rumsas e che ha portato, grazie al lavoro della squadra mobile di Lucca e dello Sci della polizia di stato, nella notte di lunedì a cinque provvedimenti di custodia cautelare nei confronti dei responsabili del team ciclistico dilettantistico Altopack Eppela e a una ventina di avvisi di garanzia a corridori, medici, cicloamatori,
fiancheggiatori a vario titolo.
No, quella di Lucca non è la solita inchiesta sul doping. Almeno quindici atleti giovanissimi (19-22 anni) di una delle più ricche squadre dilettantistiche nazionali sottoposti sistematicamente a iniezioni di Epo di ultimissima generazione, testosterone, ormoni, insulina, stimolanti oppiacei e sostanze mascheranti. Il tutto eseguito nell’abitazione degli anziani genitori del proprietario del team, Luca Franceschi, che la mettevano a disposizione del figlio e dei suoi atleti come “clinica” per lo stoccaggio dei prodotti che venivano somministrati anche per endovena da infermieri improvvisati. Le intercettazioni, innumerevoli ed esplicite, mostrano pressioni pesantissime sugli atleti per assumere le sostanze da parte del direttore sportivo Elso Frediani, di genitori complici o istigatori, dei pochi ragazzi che rifiutavano il trattamento convinti a sottoporvisi con pressioni psicologiche o esclusi dalla squadra. I genitori ultrasettantenni di Frediani portavano a casa le sostanze nei sacchetti della spesa e le custodivano in frigo tra la frutta, i ragazzi si recavano da loro dopo pranzo, nei giorni di recupero, per fare il pieno di farmaci, come se andassero a fare una passeggiata.
Un addetto del team smaltiva fiale, cannule per endovenose e boccette di farmaci lontani da casa, un notissimo medico sportivo toscano spiegava come sfuggire ai controlli, impresa in cui i ragazzi erano bravissimi, un farmacista che è anche ciclista amatoriale (Andrea Bianchi) recuperava parte dei prodotti proibiti. Uno solo di loro, Raimondas Rumsas jr, figlio dell’ex dopatissimo professionista omonimo e fratello del povero Linas, è stato incastrato in un controllo antidoping disposto dall’autorità giudiziaria. Tutti gli altri, dopatissimi, l’hanno sempre fatta franca. Nelle telefonate si parlava di pizze, meloni, jolly ordinate e recuperate dagli investigatori in quantità «degna di una struttura ospedaliera». L’inchiesta di Lucca andrà avanti per settimane, forse mesi. La procura tace sulle ragioni della morte di Linas Rumsas (le indagini sono in corso) lamenta palese ostilità e totale mancanza di collaborazione da parte dei familiari del lituano scomparso ma anche di tutti gli altri indagati, ragazzini compresi. Ma l’idea è che anche la verità su un decesso più che sospetto adesso sia più vicina, in attesa, come ha spiegato il procuratore generale, «che qualcuno finalmente di decida a parlare, a collaborare per evitare altro dolore e altri lutti e farci tornare a parlare di ciclismo come di uno sport».
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