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10/02/20

Enrico Berlinguer, un Leader Senza Eredi

Enrico Berlinguer, un leader senza eredi

Per dieci anni il segretario del Pci è un capo rimosso: troppo scomodo, troppo difficile confrontarsi con la sua politica. La riscoperta arriva nel 1994 con il fallimento della strategia di Occhetto

DI MARCO DA MILANO

Molti sguardi si cercavano, fra le file, e in molti Ernesto colse la sua stessa percezione, che nulla 
sarebbe stato più come prima, che quel modello di partito che il vecchio Segretario aveva sviluppato a modo suo, difendendolo fino alla morte, era perito con lui e forse prima di lui.... Ernesto, il funzionario del Pci protagonista del romanzo di Enrico Menduni Caro Pci, racconta così il suo smarrimento, personale e collettivo, dopo la morte di Enrico Berlinguer. Il libro esce nel 1986, dal tragico comizio di Padova sono passati appena due anni,
 l'eredità del segretario amato è un peso che il successore 

Alessandro Natta prova a reggere con dignità, ma nessuno in quel momento la rivendica 
espressamente perché «un'eredità, per sua natura, è qualcosa di diverso da una presenza viva». E 
invece quel Pci, nel racconto di Menduni, assomigliava alle rovine della Roma antica, «necropoli, terre di morti che parlavano per segni al posto di città ormai cancellate ... Anche il Partito era stato costruito su aspirazioni forti, impregnate di senso, capaci di parlare al cuore degli uomini e delle donne. Poi qualcosa si era spezzato. Le strade della vita e dei mutamenti si erano dirette altrove».

Sarà così anche nel momento di maggiore travaglio, all'indomani della caduta del muro di Berlino e 
della svolta della Bolognina, il cambio del nome e del simbolo del partito comunista. Si fissano le posizioni in quel passaggio storico, il nucleo del sì, il fronte del no, e poi i riformisti, quelli che 
«compagni, la svolta è una necessità», senza alternative, 
e quelli che invece la vivono come una scelta liberatoria.


A recuperarli oggi, il discorso di Achille Occhetto alla direzione del 14 novembre 1989 e la relazione di fronte al Comitato centrale del 20 novembre in cui viene per la prima volta lanciata la "Cosa" («Prima viene la cosa e poi, il nome. E la cosa è la costruzione in Italia di una nuova forza politica»), gli interventi a favore e contro, il dibattito tra gli intellettuali sulle pagine dell' "Unità" o del "Manifesto", a rileggerli a distanza di un quarto di secolo ci si accorge 
di un'assenza vistosa. Manca l'Eredità. Manca Enrico Berlinguer.

Solo il giovane Gianni Cuperlo, segretario della Fgci, in quello storico Comitato centrale cita il 
segretario scomparso a Padova per ricordare la sua lezione sul «senso rivoluzionario di una proposta 
come l'austerità», Tutti gli altri, i compagni di lotta di Enrico come Alessandro Natta o Aldo Tortorella, che guidano il fronte del no, e i giovani della segreteria, come Massimo D' Alema e Walter Veltroni, sostenitori con accenti diversi della Svolta, evitano ogni riferimento a Berlinguer, resistono alla tentazione di annetterlo a un fronte o all'altro. Forse perché, onestamente, nessuno è in grado di dire cosa avrebbe fatto il leader comunista nel 1989, 
se avrebbe oltrepassato i limiti o se avrebbe provato a resistere.

Andrà allo stesso modo nel 1992, quando il Pds è chiamato a Milano ad affrontare l'operazione Mani 
Pulite. Nessun dirigente di rilievo osa nascondersi dietro l'ombrello protettivo della figura di Berlinguer, come accadrà in seguito. Anzi, quando Occhetto torna alla Bolognina per la "seconda svolta", attacca «la nobile illusione storica propria del Pci: che il codice morale del partito fosse, per così dire, di un rango etico superiore a quella del singolo cittadino», 
infrange il mito berlingueriano della diversità.

Fino al 1994 Berlinguer è un leader rimosso Troppo scomodo. Troppo difficile confrontarsi con la sua politica. Anche se, nel frattempo, il mito tra i militanti e l'elettorato è intatto, nei primi anni Novanta nei teatri l'applauso più forte per Giorgio Gaber scatta quando arriva il verso «qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona». Un mito che va oltre la politica, che precede gli errori e le 
sconfitte, che sta lì ad indicare la distanza tra le grandi speranze collettive del passato e il mediocre 
adattamento del tempo presente. Per riscoprirlo bisogna aspettare la nuova crisi, il fallimento della 
strategia occhettiana, il risveglio dal sogno di diventare il partito architrave della seconda Repubblica.

L'alternativa al sistema politico bloccato, fondato sulla centralità della Dc e dei suoi alleati di governo, a partire dal Psi di Bettino Craxi, arriva ma ha tutt'altro colore politico. Arriva da destra, la nuova destra cresciuta e maturata negli anni Ottanta, il forza- leghismo di Silvio Berlusconi e di Umberto Bossi. È il 1994, dai funerali di piazza San Giovanni sono passati dieci anni, i leader del Pds che fino a quel momento hanno evitato di inserirlo tra i padri fondatori del nuovo partito si contendono l'eredità di Berlinguer. Interpretandola, naturalmente, ciascuno a suo modo.


Occhetto ritrova il predecessore nel decimo anniversario della scomparsa, con un lungo editoriale 
sull'"Unità" intitolato "L'uomo del rinnovamento": «Berlinguer non si affidava solo alla grande politica, intesa come manovra, ma al sorgere, nel cuore della società civile, di "nuove potenze", cioè di forze organizzate dal basso, capaci di introdurre nel corpo vivo della società alcuni fondamentali "elementi di socialismo". Per troppo tempo ci siamo dimenticati di questa sua innovazione», scrive il segretario del Pds l'11 giugno. «Se ripenso allungo cammino politico compiuto insieme a Berlinguer, e poi a quello che abbiamo fatto dopo di lui, io trovo gli elementi di una unità di intenti, di una ispirazione comune. Ma guardiamoci dal dipingere la storia politica di Berlinguer come una marcia trionfale, circondato dal rispetto e della venerazione. Egli in realtà fu ferocemente criticato, perfino dileggiato ». Il segretario del Pci diventa l'innovatore, il precursore della svolta, incompreso dagli avversari ma soprattutto dei compagni di partito: una sovrapposizione completa tra Berlinguer e Occhetto, isolato all'interno del gruppo dirigente. D'Alema ne ha già chiesto in privato le dimissioni («Achille, sei tecnicamente obsoleto »), passeranno quarantotto ore e il segretario del Pds diventerà il primo numero uno di Botteghe Oscure che si dimette in seguito a una sconfitta elettorale. Un nuovo trauma per il popolo post-comunista, dieci anni dopo Padova. La diversità non c'è più, anche nel Pds la lotta per la leadership si fa brutale guerra per il potere, con la conta dei fedelissimi e lo screditamento degli avversari: il dileggio. 

Nei libri e nelle interviste degli anni successivi Occhetto sarà ancora più esplicito. E rivelerà che già nel 1974, durante la campagna per il referendum sul divorzio, il leader gli aveva confidato l'intenzione di cambiare il nome del Pci, in una stanza di albergo ad Agrigento. «Enrico passeggiava dietro di me in maniche di camicia e pantofole. All'improvviso mi chiese a bruciapelo: "Cosa ne pensi se cambiassimo nome al Pci?". Rimasi di sasso, senza respiro. Fantasticammo un po', alla fine mi chiese: "Che nome gli daresti?". Ci pensai un po', poi timidamente azzardai: "Partito comunista democratico". Lui sorrise con aria di sufficienza e mi rispose: "Da un lato è troppo poco, dall'altro si finirebbe per far credere che attualmente non siamo democratici».

C'è, in questo racconto, l'ossimoro tra il comunismo e la democrazia, il dilemma impossibile che 
Berlinguer prova ad attraversare in vita e che i discendenti devono sciogliere trovandosi di fronte alla 
sfida nuova di una politica disincantata, eppure bisognosa di radici simboliche potenti, per non perdere la strada. Lo capiscono D' Alema e Veltroni che nel 1994 scrivono un libro su Berlinguer, proprio mentre stanno scontrandosi per la segreteria del partito. I duellanti della Quercia sono cresciuti negli anni Settanta, tra la Fgci e Botteghe Oscure, possono rivendicare a buon titolo un pezzetto del patrimonio, ma rappresentano fin da allora due concezioni diverse della politica, delle alleanze, due modi diversi di intendere il partito, la nascente coalizione dell'Ulivo, il progetto del futuribile Partito democratico. Il Berlinguer di D'Alema non è il Berlinguer di Veltroni. Per D' Alema il segretario del Pci è l'uomo che ha intuito «la necessità dell'incontro tra la sinistra democratica e il mondo cattolico», chiamato a benedire il patto con il centro che è l'architrave di tutta la politica dalemiana degli anni a venire, da Lamberto Dini a 
Pier Ferdinando Casini passando per Francesco Cossiga: un mini-compro messo storico.

Per Veltroni Berlinguer è il politico dei «pensieri lunghi» sulla rivoluzione femminile e tecnologica, l'uomo della «sfida interrotta», «il primo fenomeno della politica-spettacolo» che bucava lo schermo con il suo aspetto severo e il sorriso timido, un «innovatore coraggioso e solitario »: «Quando disse che la spinta propulsiva della rivoluzione d'ottobre si era esaurita andò in tv, non era andato a Botteghe Oscure, parlava direttamente alle persone». Il leader per cui potevi iscriverti e votare per il Pci senza essere comunista, come ripetutamente Veltroni dirà di sì. Con Aldo Moro, il padre ispiratore di un possibile Partito democratico. Un Berlinguer diviso in due. L'ipertattico e l'icona. Il custode dell'identità e della vecchia forma-partito e l'anticipatore del nuovo, colui che il vecchio partito aveva già superato. La bussola che indica la strada, il modello da proporre ai giovani, ma anche l'ostacolo, l'ingombro, da rimpiangere o da consegnare al passato. Dimenticare Berlinguer, suggerisce in un pamphlet pubblicato da Donzelli, Miriam Mafai che l'ha conosciuto bene, ed è il 1996, l'anno in cui i ragazzi di Botteghe Oscure raggiungono finalmente l'obiettivo di arrivare al governo: «Dimenticare Berlinguer significa liberarsi, criticamente, di un bagaglio di idee, di concezioni del mondo, di valori persino che rischiano di 
impedire alla sinistra, ed al Pds che ne è la parte più rilevante, di guardare alla realtà con occhio scevro da pregiudizi e di immaginare le possibili soluzioni».

Il mito di Enrico, però, è più vivo che mai. Si alimenta delle incoerenze, delle giravolte ideologiche, dei tradimenti dei suoi eredi. In un pantheon vuoto, in cui la confusione delle radici e dei riferimenti simbolici appare una babele più che uno sforzo di eclettismo culturale, tra neo-togliattiani e tardi epigoni dei fratelli Rosselli di Giustizia e libertà, la figura di Berlinguer continua a influenzare in profondità i nuovi leader, chissà quanto inconsci emulatori di un politico inimitabile, perfino negli aspetti minori. n gesto bello, allegro, spontaneo di Roberto Benigni che prende in braccio un Berlinguer più che mai intimidito e però sorridente, viene ripetuto più volte dai successori: una gara a farsi prendere in braccio, o almeno a farsi baciare dall'attore toscano, che finisce per ottenere l'effetto opposto, stucchevole. Man mano che aumentano anche nel campo post-comunista gli scandali, l'allontanamento dagli «ideali di gioventù», l'incapacità dei dirigenti di «parlare al cuore e alla mente delle persone» denunciata nel 2002 da Nanni Moretti in piazza Navona, ecco che rispunta irrefrenabile, la nostalgia di Berlinguer, di quando c'era Enrico. Nel 2004, altro decennale, la sinistra nel frattempo ha consumato senza particolari entusiasmi la 
prima prova di governo, sta attraversando il deserto di una legislatura berlusconiana a corto di modelli politici e culturali. Tocca a D' Alema proporre una nuova lettura di Berlinguer, provando ad arginare quel che sente avanzare nel campo democratico e progressista, in casa propria: il vento dell'anti-politica che soffia forte e che si rafforza nel ricordo dell'antico leader che denunciato la questione morale come cuore della crisi italiana.

«Di fronte al discredito della politica, l'antipolitica è diventata un fenomeno culturale fortissimo nell'ultimo decennio. Dominante», dice il presidente dei Ds a Piero Sansonetti che lo intervista per "L'Unità". «La versione di destra è al governo del Paese, con Berlusconi. La versione di sinistra è un male oscuro che corrode la sinistra italiana. Berlinguer è una potentissima testimonianza contraria». «Corriamo il rischio di trasformare Berlinguer in una figura profetica, disinteressato alla politica come compromesso, manovra, aggiramento dell'avversario. Invece morì mentre stava trattando con la Dc per far cadere Craxi, l'antipolitica direbbe sottobanco, io dico riservatamente ... Abbiamo bisogno di una guida politica per il Paese, il nuovismo ha prodotto un disastro», ripete D' Alema in una commemorazione organizzata in Campidoglio, nell'ansia di chiamare l'autorità morale del leader scomparso a esorcizzare il fantasma dell'inciucio che perseguita il suo successore. Un tema che tornerà a far discutere, e a dividere, nel 2013, con il governo delle larghe intese del Pd con Berlusconi. E al leader scomparso il primo (e unico) Presidente del Consiglio che è stato iscritto al 
Pci dedica un memoir del viaggio in cui il giovane D' Alema accompagna il segretario in Unione sovietica per i funerali del sovietico Juri Andropov, qualche 
mese prima della morte, nel1984 che è l'ultima volta di Berlinguer a Mosca e di tante altre cose. Un 
ricordo commosso e ironico (il racconto delle tre leggi generali del socialismo reale: «La prima è questa: i dirigenti dicono sempre le bugie, anche quando non è necessario. La seconda è questa: l'agricoltura non funziona. La terza legge, facci caso, è che le caramelle hanno tutte la carta attaccata ... ») di un leader e di un mondo arrivato alla fine. Lo ammette Veltroni, intervenendo nello stesso convegno del Campidoglio nel2004: «Il Pci finisce con la morte di Berlinguer, questa è la verità. Ci fu poi il gesto di coraggio del1989, il Pds non era solo un nome rimasto libero sul mercato, corrispondeva a quella strana creatura che raccoglieva fasce di voto ideologicamente lontane dal Pci. Se la sinistra è arrivata al governo lo si deve al fatto che Berlinguer ha costruito quel partito lì, non l'amministrazione di un declino, ma l'apertura di un cammino».

La lettura più cruda, la meno auto-consolatoria, arriva da uno dei giovani dirigenti che fu più vicino a Berlinguer, il segretario dei Ds Piero Fassino. È lui, nel suo libro Per passione, a evocare per il leader 
più amato la categoria della sconfitta, a recidere, in modo brutalmente sincero, la radice: «Mi è capitato spesso di pensare a Berlinguer come a un campione di scacchi che sta giocando la partita più importante della sua vita: la partita dura ormai da molte ore, sta giungendo alle battute finali e 
guardando la scacchiera il campione si accorge che, con la prossima mossa, l'avversario gli darà 
scacco matto. Ha un solo modo per evitarlo: morire un minuto prima che l'altro muova. In fondo, la 
tragica fine risparmia a Berlinguer l'impatto con la crisi della sua strategia politica».

La partita di Berlinguer non era solo con Craxi. Quella dei suoi eredi si gioca con Berlusconi e con una modernità che i post-comunisti faticano a decifrare, di volta in volta troppo apocalittici o fin troppo integrati, o arroccati sulla conservazione delle antiche tavole della legge o tentati dall'accettazione totale del terreno dell'avversario, divisi tra il rigetto della diversità e la seduzione del presente, con le sue meschinità, il suo conformismo, il «desiderio di essere come tutti » che ti trascina a essere uguale, troppo uguale agli altri: «negli anni in cui c'era Berlinguer, sono stato più infelice che felice. In questi venti anni di Berlusconi, sono stato più felice che infelice»,
 conclude lo scrittore Francesco Piccolo. 
«Berlinguer finisce il comizio di Padova perché per lui la politica era una missione», commenta Veltroni alla fine del film che ne celebra il trentennale della morte, mentre fuori tutto è cambiato e va al potere una generazione di Matteo Renzi interamente cresciuta senza Berlinguer, estranea allungo dopoguerra italiano e alle sue culture politiche. Il comizio di Berlinguer, il leader senza eredi, è terminato, la partita dei suoi discendenti continua. Oppure no, è finita anche questa.  

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