Dopo aver visto “Senza tetto” di Domenico Iannaccone
sono ancora più convinto che talune formule
che si usano sono davvero pura retorica.
Penso alla locuzione: “Bisogna riandare in mezzo alla gente”.
Come se questo “andare al popolo” potesse essere una specie di gesto salvifico. Come se non
conoscere di persona e da vicino la sofferenza di chi vive in periferia, o non ha casa, oppure è
disoccupato, o subisce la discriminazione razziale,
non consentisse di prendere coscienza dei fenomeni al punto di fare finalmente qualcosa. Sì, ma cosa? Possibile che solo la politica che si schiaccia sul
sociale, che si rende sottile, quasi scompare alla vista, possa avere un effetto terapeutico verso il
disagio? Possibile che la politica debba obbligatoriamente ‘ridursi’ al sociale per svolgere i propri
compiti, e tra questi il riscatto di chi lavora o di chi vorrebbe lavorare ma è disoccupato? O di chi vive lontano, ai margini, fuori dai circuiti che contano? Possibile che si debba ineluttabilmente adottare lo stile populista, per il quale la prossimità al popolo e alle sue contraddizioni possa essere la sola garanzia di un cambiamento?
Dirò un’apparente eresia, ed è questa: si mette in movimento un processo effettivo (anzi effettuale) di
cambiamento solo se si ha un’idea di società adeguata alle condizioni vigenti e perfettamente indirizzata a combattere le disuguaglianze e il disagio sociale e personale di milioni di persone. Sennò, si va al popolo solo per diventare popolo, e magari assumerne la rabbia; ma con ciò perdendo di vista il percorso complesso, articolato che traversa le istituzioni, fa i conti dovuti con gli apparati del sapere e della conoscenza e si misura con i vincoli
che lo stato di cose ti impone, per modificarli sempre più.
Sennò, andare in mezzo alla gente diventa una specie di gita delle élite, magari un bel passatempo,
persino un evento pittoresco. I dati li conosciamo in abbondanza, l’informazione ci bombarda
continuamente di notizie e di rappresentazioni della realtà; ed è sotto gli occhi di tutti che un diaframma di ingiustizia taglia in due la società. Quel che fa la differenza, appunto, è l’idea che abbiamo di tutto ciò, gli intenti veri che manifestiamo, e poi i progetti politici che governo, istituzioni, quel che resta dei partiti mettono in campo.
‘Andare al popolo’ privi di un’idea di società (anzi, identificati demagogicamente con la società stessa!), senza alcun progetto di cambiamento, di riscatto sociale, di cura dei mondi marginali e non solo di quelli che magnetizzano il reddito, sarebbe un inutile beau geste. Ecco perché soltanto un’articolazione politica, dotata di un’idea e di un’autonomia, può indicare una direzione, e non limitarsi a praticare l’identificazione (impossibile peraltro) tra la stessa ‘politica’ e il ‘popolo’. Semmai, se ciò avvenisse, il destino del sociale sarebbe davvero segnato, circoscritto, tendendo ad appiattirsi su di sé, e a farsi rabbioso (come in Francia) o peggio disilluso (come nella astensione). La politica è una leva, deve essere una leva anche istituzionale, non meramente una ‘riflessione’ sociale o economica. La politica deve rappresentare, non sciogliersi, non miscelare mondi diversi. Deve saper essere autonoma. Un circolo, una sezione (quando esistono) non sono nel quartiere per fare ‘sindacato’ o associazionismo, per immedesimarsi, per ‘andare al popolo’, ma per sperimentare, verificare e mettere alla prova e misurare coi soggetti sociali le idee, i progetti e le possibili linee di avanzamento della proposta politica, mettendo a confronto il fronte istituzionale e quello delle organizzazioni politiche con la ruvidezza sociale e con le singolarità che non si sciolgono, costruendo dibattito e partecipazione, meglio se organizzata.
Il vero movimento è opposto, in realtà: è il popolo che deva andare alle istituzioni, ai partiti, alla politica, nel senso di esigere idee, sollecitare progetti, indurre mosse istituzionali, dando corpo effettuale alla rappresentanza. Le sardine sono un’interpretazione efficace e attuale di questa esigenza. Una sorta di antipopulismo, direi, una medicina da somministrare a una prassi malata, la quale vede nel ‘popolo’ la salvezza, dimenticando che quest’ultima, se ci fosse davvero, sarebbe opera della politica, sarebbe suo compito, sarebbe una sua sfida. Parlo di una politica, certo, capace di guardare alla società con il piglio di chi vuole cambiare le cose,
e trasformare la vita pubblica e quella delle persone.
Una politica capace di idee effettuali, di una cognizione esatta dei vincoli per spostarli sempre più in avanti, di una visione delle istituzioni che le rende operanti e non scatole vuote, nonché stimolo alla partecipazione dei lavoratori e dei cittadini, unico vero antidoto alla corse arrischiate verso la rabbia sociale, senza nemmeno il paracadute di idee chiare e distinte e il rispetto, assieme, dei limiti della propria azione e delle differenze vigenti.
Senza una cognizione delle quali tutto si confonde,
tutto si mischia, come una pece, come un nulla.
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